Lettere al Direttore / Libertà, generosità, leggerezza: in ricordo di Giulio Giorello

di Tonino Armata (presidente onorario ass. Città dei Bambini)

Gentile direttore,

Diciamo addio al filosofo Giulio Giorello. Aveva settantacinque anni e si era ammalato di covid-19 per il quale era stato ricoverato quasi due mesi in ospedale, da cui era stato dimesso poco tempo fa. È deceduto nella sua casa piena di libri, che “continuamente lo rallegravano”, dopo che aveva ripreso la sua attività di studioso e di scrittore, amante della filosofia, della logica, della scienza e di tutto ciò che si muoveva nella società.

Ricordo lo spunto dal relativismo cosmologico e dalla concezione eroica dell’eretico Giordano Bruno, una riflessione sulle differenze tra la ‘certezza’ con cui si accende la fenice della religione e il ‘dubio de rivederil sole’ proprio della fenice della filosofia.

 Un matematico, un fuoriclasse della filosofia della scienza, un polemista, un saggista, ma innanzitutto un docente. Il primo ricordo che ho di Giulio sono le sue lezioni alla Statale di Milano, gremite di studenti tutti pigiati, una folgorazione. Passava leggiadro dagli sviluppi del falsificazionismo popperiano alla filosofia della matematica, dagli anarchici del Seicento inglese a Topolino e Tex Willer, passando sempre per la sua Irlanda ribelle.

Sulle prime, sembrava un mosaico frammentario e sconnesso, poi capivi che c’era una logica, una coerenza, una trama di parole chiave ricorrenti. Condiva il tutto con il sapore letterario e l’evocazione di una pinta di birra e di un buon whisky. Se eri astemio e gli davi troppo spesso ragione, ti guardava con sospetto. La discussione argomentata, libera, sfrontata era un segno di amicizia.

Leggendo i suoi articoli sul Corriere della Sera, ti chiedevi sempre dove diavolo avesse preso quelle citazioni e come gli fosse venuto in mente di collegare Lenin, Gilgamesh, Joyce e la Banda Bassotti. Era insofferente a ogni steccato disciplinare. In pubblico infilzava gli avversari (di solito: teologi, preti, tiranni, baciapile e tutti i presuntuosi) con battute affilate, ma in privato il peggio che gli sentivi dire di qualcuno che non stimava era: “com’è noioso”.

Giulio Giorello è stato un maestro di libertà, di antidogmatismo, di esercizio sistematico e dissacrante del dubbio. Vedeva la scienza come una continua messa in discussione dei presupposti altrui e propri, potente antidoto contro ogni settarismo, fanatismo, militanza ideologica, contro le chiese di ogni sorta, con i loro sacerdoti, gli zelanti funzionari e le pie imposizioni. Per lui la scienza era ricerca senza fine della verità, errore generativo e solidarietà. Era un laico nel senso più autentico e radicale del termine. Non tollerava gli intolleranti.

Giulio Giorello è stato un maestro di generosità. Non diceva mai di no, non si risparmiava. Lo invitavano, lui partiva in treno o si faceva dare un passaggio, e andava a tenere conferenze negli angoli più sperduti (spesso i più vivi) della penisola. Quattro appunti su un foglio, un libro in mano, e parlava per un’ora di illuminismo radicale ed etiche senza dio. Certe volte dava l’impressione di essere solo, spaesato, sciupato, o di sfuggire qualcosa.

Con chi gli era caro, era sempre premuroso. Ha introdotto in Italia schiere di autori sconosciuti che adesso popolano le librerie. La sua collana “Scienza e idee” con l’editore Raffaello Cortina, 300 titoli, ha fatto scuola nella saggistica scientifica. Ha capito che la filosofia della scienza italiana doveva aprirsi a regioni nuove come le neuroscienze e la biologia evoluzionistica.

Giulio Giorello è stato un maestro di leggerezza, di quella che oggi è ormai estinta: una colta, rigorosa e metodica leggerezza. In un’epoca in cui essere leggeri è diventato sinonimo di superficialità, evasione e ostentata stupidità, Giulio, privo di qualsiasi snobismo, dialogava con tutti, trasmettendo la sensazione palpabile del piacere della cultura, del godimento della lettura. I suoi racconti scientifici e filosofici erano lezioni di inquietudine, di rivolta contro ogni autorità precostituita, di emancipazione.

Ma soprattutto la personalità, il timbro unico che metteva in ogni cosa che faceva e scriveva. Era lui, era il suo stile, la sua figura alta e un po’ sbilenca, l’andatura oscillante, le arrabbiature, le giacche stropicciate, la camicia sempre un po’ fuori, la gesticolazione ironica, i finali ripetuti e strascicati di alcune parole, i suoi tic che non sapevi se interpretare come nervosismo o come diversivo, gli occhi piccoli che sprizzavano curiosità e spesso divagavano, puntavano in una direzione centrifuga che sapeva solo lui e poi tornavano indietro con un’idea o una connessione inaspettata. Non saprei dire perché, ma aveva una postura settecentesca, da libero pensatore.

A un maestro così si può solo dire grazie. Mi resterà per sempre il ricordo di quando faceva la lezione su Darwin nel suo corso in Statale e al termine si andava a bere nel suo pub in Porta Romana. L’unico mondo che abbiamo è questo, diceva sempre. Mi perdonerà quindi la licenza poetica di immaginarlo adesso felice mentre discute e duella con i suoi amati pirati e corsari.

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