di ALCEO LUCIDI
SAN BENEDETTO – È transitato anche a San Benedetto del Tronto, martedì 31 gennaio alle ore 21, l’Amleto, riadattato in una versione agile ed efficacissima, da Daniele Pecci, che ne cura pure la regia. Pur essendo un debutto da regista del noto attore televisivo, questo di Pecci con il teatro di Shakespeare non è assolutamente un incontro causale. C’è dietro una lunga tradizione di studi: quasi trent’anni di inesausta riflessione sul testo ed una tesi di laurea. Il risultato è un delizioso gioiello di rigore e precisione nella drammaturgia, di asciuttezza nei dialoghi, di immediatezza della resa scenica attraverso una lingua vibrante che tiene in scacco lo spettatore fino alla fine.
In tempi di vacche magre per i teatri, sentire parlare di una messa in scena con 14 personaggi, sui 23 previsti da Shakespeare, fa piacere, anche se è la stessa Maddalena Crippa, una calzante Gertrude – madre di Amleto, figura ironica, fragile, dibattuta ed inquieta di moglie di un re assassinato – a ricordare l’importanza dell’impresa.
Una pietra miliare della scrittura drammaturgica di ogni tempo, con centinaia di rappresentazioni all’attivo – memorabili, ad esempio, quelle di Gassman al teatro Valle nel 1952 con la regia di Luigi Squarzina ed un cronista di eccezione, Carlo Emilio Gadda, di Carmelo Bene dal 1961 al 1975, di uno Zeffirelli datato 1963 o di De Berardinis tra l’83 e l’84 – il magniloquente affresco delle passioni umane dell’Amleto ci viene qui riproposto in tutta l’urgenza e la disarmante, profetica attualità di un classico.
Ambientato negli anni Trenta del secolo scorso, avvicinato alle nostre sensibilità, il contributo di Pecci, portato in scena in anteprima al Teatro Quirino di Roma lo scorso ottobre, a detta dello stesso attore è un’opera tutta politica, perché intensamente politico è il contenuto veicolato.
Amleto vive in sé una profonda dualità: tra «il microcosmo degli affetti» e «il macrocosmo del mondo», della ragione di Stato, che lo vede quale erede del Regno di Danimarca, usurpato dallo zio Claudio, omicida del padre. Insomma la dolorosa scelta è tra l’essere, ovvero l’azione in un mondo sempre difficile per l’uomo, perché complessa è la vita di fronte ai dilemmi e ai rovelli a cui ci pone, ed il non-essere, o meglio la stanchezza, l’insicurezza dei nostri passi, la rinuncia alla lotta, al cambiamento. «L’Amleto di Shakespeare è il testo teatrale più importante dell’era moderna. Vi è in esso un’analisi approfondita dell’umano sentire, in rapporto alle problematicità del vivere quotidiano. Meglio di chiunque altro, e soprattutto per primo, Shakespeare è riuscito a raccontare le infinite contraddizioni dell’essere umano, di fronte all’impegno che questo deve assumersi per potere anche semplicemente stare al mondo; affrontare il futuro, il destino, l’amore, le ingiustizie, le controversie, il dolore, la perdita etc…».
Amleto è personaggio che contiene in sé le pesanti, direi ingombranti, contraddizioni del secolo – Il Seicento – al quale appartiene: araldo dell’avanzato pensiero rinascimentale, scettico verso qualsiasi forma di consuetudine sociale, è però risucchiato nelle spirali di odi, violenze, tradizioni, codici d’onore del proprio tempo. E’ colto, intellettualmente brillante (ha studiato a Wittemberg, patria del Protestantesimo e delle 95 tesi di Lutero), spiritualmente vicino alla posizioni di una cultura umanistica che ha inteso rifondare la visione del mondo e dell’uomo, capace di un fortissimo senso critico contro ogni immobilismo filosofico, morale, religioso imposto dalla vecchia cultura medievale, ma, al tempo stesso, a completamento della sua connaturata problematicità, di umore malinconico e con una personalità irrisolta.
Nel suo esistenzialismo e relativismo traspare la visione della nuova civiltà degli early modern, inaugurata da Cartesio e continuata da Montaigne, in cui il pensiero diviene unico potente strumento di autodeterminazione delle coscienze in rapporto all’esistente. Il dramma, dunque, è tutto nell’impossibilità di fare coincidere pensiero ed azione, in una cronica indecisione, la quale, approfondendo progressivamente l’impotenza nel fuoriuscire dal circuito fuorviante della vendetta in cui si è immessa, determina la precipitazione degli eventi nell’intreccio, che, come avrebbe detto Nadia Fusini, ingolfano la tragedia.
Secondo un altro grande anglista e critico letterario, Agostino Lombardo, Amleto diviene così l’immagine stessa, apodittica ed in sé conchiusa, dell’eroe nel suo dramma moderno e l’involontario anello di congiunzione tra due concezioni cosmologiche: quella tomistico-medievale, racchiusa in un’idea di sapere rigidamente normativizzato e quella rinascimentale, con al centro l’uomo e la varietà del suo spirito non riducibile, per citare Giorgio Melchiorri, «ad un’interpretazione unitaria e definitiva».
Direi che il lavoro di Pecci riesce, in un’operazione di semplificazione del testo, purgato da simbologie ed orpelli stilistici, nel solco di una scenografia sobria e lineare, a rendere bene lo spirito di un’opera che, nel gioco di registri alti e bassi tipico di “Cigno” di Stratford-Upon-Avon, volge uno sguardo imperituro al dramma delle passioni umane.
Foto tratta da cinequotidiano.it